Il pallone non era solo un gioco, rappresentava una serie infinita di giochi, era la garanzia di un pomeriggio pieno e divertente, il pallone era una divinità. Chi aveva il pallone diventava il re, colui che stabiliva chi giocava e chi stava fuori, il padrone del pallone poteva decidere il gioco e a volte cambiarne le regole: il pallone è mio decido io. Tiranneggiava sugli altri, certo, ma non doveva esagerare perché se gli altri si stancavano mollavano pallone e tiranno e giocavano senza palla e a volte, quando rompeva troppo, glielo nascondevano pure.
Il pallone poi poteva essere sequestrato: se disgraziatamente durante il gioco finiva nel cortile sbagliato, c’era una vecchia (era quasi sempre una vecchia) che scendeva, prendeva il pallone e lo nascondeva nel suo garage. Nessuna ha mai capito esattamente che cosa la infastidisse e, soprattutto, che ci facesse con tutti quei palloni in cantina.
Il pallone trasformava due maglie buttate a terra in un campo da calcio, tramutava un cancello in un campo da pallavolo o un secchio in uno da basket, col pallone si giocava a torello, a palla avvelenata o prigioniera, a palla a muro, il muro serviva anche quando si era soli e si aspettava che gli altri venissero giù. Il pallone era dio.
Sembra incredibile cosa si può fare con un solo, semplice e quasi banale pallone (ma occhio alle vecchie).
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