Calendario dell'Avvento 2015

Il Natale del ’46, a m’arcòrd

By 24 Dicembre 2015 Gennaio 3rd, 2016 No Comments

I nostri speciali auguri con un racconto e una piccola animazione dal sapore antico, buon Natale.

È l’inverno del 1946, uno degli inverni più freddi che si ricordino a memoria d’uomo, un fràdd da gàtt diceva il nonno. Cosa poi c’entrassero i gatti col freddo Pippi non lo aveva mai capito. Fuori la neve è caduta abbondante, è ancora buio, ma la luce diffusa dalla coltre bianca rischiara il gelido mattino. Pippi è al centro del lettone enorme, in mezzo alle sue sorelle, ha il naso gelato, ma è troppo elettrizzata per restare a letto. Salta giù e corre alla finestra, in punta di piedi prova a guardare fuori. Alita sul vetro per sciogliere lo strato di ghiaccio che si è formato durante la notte, è felice. È la Vigilia di Natale, la vizèglia, un giorno davvero speciale. Sente i passi della mamma che sale le scale, come ogni mattina entra nella sua camera, la carica sulle spalle e la porta giù in cucina, al caldo. Con tutto il trambusto che ha fatto, ha svegliato anche le sue sorelle che assonnate la seguono in cucina. I loro vestiti sono già appesi sopra la stufa a legna, pronti per essere indossati. Finalmente un poch ed chèld, un po’ di caldo per Pippi e le sue sorelle.
A Pippi piace moltissimo far colazione, ci sono le sue cose preferite, la sua tazza, il latte caldo col caffè d’orzo e pezzetti di pane secco per la zuppa. Ma quello che la bimba scorge al centro della tavola è davvero incredibile! Una cesta luccicante piena di dolci d’ogni tipo: caramelle, torroni, cioccolate e noccioline. Quanta ròba! Mai viste tante cose così buone tutte assieme! La mamma diceva che dopo la guerra sarebbe stato difficile trovare i dolci, i negozi erano sempre mezzi vuoti. Pippi pensava che sarebbe finita come per la sua cartella di scuola. Aveva sempre sognato una cartella nuova, tutta sua, ma quell’anno, il suo primo di scuola, di cartelle in negozio proprio non ce n’erano, così la bimba si era accontentata di una cartella di stoffa che le aveva cucito la mamma. Pensava già che l’albero sarebbe stato mezzo vuoto, come al sòlit, e invece, eccoli lì, un mucchio di dolci avvolti nelle carte colorate, pronti per per farne collane ed essere appesi all’albero di Natale.

Pippi non vede l’ora di iniziare gli addobbi. Quell’anno poi è davvero speciale, nel giornalino parrocchiale c’erano in regalo le figurine del presepe da ritagliare, il primo presepe che Pippi avesse mai posseduto. Sulla stufa economica un miscuglio di acqua e farina ribolle, è la colla che serve per attaccare le figure al cartone, per farle restare dritte, anche se diritte non ci sarebbero state quasi mai.
Un’albero bellissimo e sotto il presepe, tròpp bel pensa Pippi, le sembra un sogno.
Le sembra un sogno quella cucina calda, illuminata dalla luce di una lampadina, le sembrano un sogno le mani delle zie e della nonna affondate nell’impasto di uova e farina, le sembra un sogno il silenzio che regna fuori, lontano dai clamori della guerra, le sembra un sogno il profumo delle bucce di mandarino sulla stufa e le sembra un sogno il gusto dolce di tutta quella roba buona appesa all’albero. Per mangiarle però doveva aspettare il 6 gennaio quando la mamma tirava giù tutti gli addobbi dall’albero e faceva un mucchietto per ogni bimbo, un pòch p’roùn, per non fare differenze.
Pippi è così felice che nemmeno le interessano i dispetti della Chiara, la sorella più grande, le tira i capelli e lei ride.
Ormai è ora di pranzo, gli adulti fanno digiuno, ma ai bimbi è consentito mangiare anche il giorno della vigilia, così mentre la mamma prepara la zuppa di sedano arrivano gli uomini delle sedie, gli scranèr, due ragazzi veneti che passano l’inverno tra le campagne emiliane a impagliare le sedie in cambio di ospitalità, un piatto di minestra e qualche soldo. Pippi sa bene di vivere in una famiglia povera, ma sa anche che essere contadini è una fortuna perché quèl da magnèr al ghè seimpèr, qualcosa da mangiare c’è sempre, loro la fame, anche durante la guerra, non l’hanno mai patita, anzi, spesso davano qualcosa da mangiare ai figli degli operai, quelli sì che avevano fame. La mamma glielo aveva detto che sarebbero arrivati i veneti, li aveva invitati per la cena di Natale. Pippi li ricordava bene perché venivano in bicicletta portando sulle spalle una sedia di legno e gli attrezzi del mestiere e parlavano in un modo strano.
A Pippi piace moltissimo quando ci sono dei furestèr, in giro per casa, a volte raccontano cose bellissime e mai sentite. Anche durante la guerra girava della gente che lei non conosceva, che chiedeva qualcosa da mangiare, ma spesso erano tedeschi e lei di quel che dicevano loro non capiva niente. Si ricordava di quel soldato che sorridendo le aveva fatto cenno di avvicinarsi. Aveva gli occhi azzurri e quando lei si mise a sedere sulle sue ginocchia si riempirono di lacrime. Le regalò un tubetto di mentine, delle caramelle così buone lei non le aveva mai mangiate, i èren tròp boùni, troppo buone!
Sono le cinque e mezza, l’ora della cena, una zèina ed mègher, cena di magro: arrosto e tortellini sono per il giorno di Natale. Sulla tavola spaghetti allo sgombro e baccalà profumano di festa, si mangia molto e si aspetta la mezzanotte che sembra non arrivare mai.
La zia di Pippi le chiede se vuole accompagnarla nella stalla a portare il pane rimasto alle mucche: “Vìn mèg”, vieni con me. Dice che il pane della vigilia è un pane benedetto e fa bene alle mucche che in inverno sono quasi tutte gravide. La stalla per Pippi è un posto caldo, la sera si riunivano lì per non sprecare la legna in casa, gli uomini giocavano a carte, le donne cucivano e rammendavano e i bimbi si sedevano intorno alla nonna che raccontava delle storie bellissime. Di solito le mucche quando entravano nella stalla, se ne stavano tranquille sedute a dormire, ma quella sera è diverso. Appena aperto il portone le mucche si alzano, Pippi sorride, pensa che anche loro sanno della storia del pane, la zia conosce davvero tante cose magiche.
L’attesa della mezzanotte è lunga e, se non fosse per la gonna fastidiosa che indossa, Pippi si sarebbe addormentata durante la tombola. Ma la gonna verde, che la mamma aveva confezionato utilizzando la fodera di panno del cappotto di un soldato tedesco, è così ruvida e pizzica così tanto che al fastèdì la tiene sveglia.
Finalmente. Finalmente è ora.
Si vestono tutti con sciarpe e cappotti, fuori c’è proprio un fràdd da gàtt. Si incamminano verso la chiesa.
La mamma ha messo a Pippi i suoi scarponcini di pelle, che a lei non piacciono per niente perché sotto hanno delle borchie che quando cammina fanno il rumore della povertà. I ricchi avevano le scarpe con la suola di cuoio: a loro non interessava che col tempo si sarebbe consumata. Le scarpe di Pippi invece i devèn durèr, devono durare, e le borchie preservano la suola dall’usura. La magia di quella notte però, le fa amare anche le sue scarpe rumorose. Cammina in mezzo alla strada, intirizzita dal freddo e con la mano stretta a quella della mamma. Il tic-tac dei suoi passi le sembra un tintinnio che suona con le campane della chiesa.
È l’inverno del 1946, uno degli inverni più freddi che si ricordino a memoria d’uomo. Pippi, camminando, comincia a battere i piedi al ritmo delle campane, così anche il Bambino può ascoltare il suono dei suoi passi felici.