“…e mi raccomando: dalla dottoressa non si grida, non si corre e non si salta. Chiaro? Altrimenti…”
“Altrimenti cosa, mamma?”
Mi fermo soprappensiero con la mano appoggiata alla maniglia. Quale cataclisma medico posso proporgli stavolta, pur di ottenere eterna, rigorosa ed incrollabile obbedienza?
La rimozione chirurgica di unghia incarnita?
Un’estirpazione di tonsille?
Un’appendicectomia preventiva?
“…altrimenti… ehm… altrimenti….” faccio un vocione da orco “…altrimenti la Dottoressa ti fa una puntura sul didietro!”
Ecco.
Seria e terrificante, ma non troppo.
“Ah-ah! Mamma! Che mostro che sei… e va beeeeene, farò il bravo”.
Interno ambulatorio pediatrico. Martedì, ore 17.40.
Oltrepassiamo la porta e veniamo avvolti dalla penombra.
L’odore di chiuso arriva a ondate mosso dall’implacabile ventilatore a soffitto: un’elica del millenovecentoquarantatrè che pare voglia staccarsi dal soffitto da un momento all’altro.
“Buongiorno”.
“…’giorno”.
Le mamme sedute si fanno aria col libretto sanitario, i bimbi intorno a un tavolino sfogliano vecchi giornali malandati.
“Chi è l’ultimo?” chiedo cercando di sormontare il rumore della turbina che ronza sopra le nostre teste.
Sguardi smarriti, ho generato un caos involontario.
“Ehm… io sono arrivata prima della signora lì…”
“Io però ho l’appuntamento…”.
“Io invece devo solo ritirare un’impegnativa…”
Della serie: neanche all’esame di maturità mi ero permessa di aggirare una domanda in questo modo.
Mi siedo anch’io, prendo mentalmente nota dei visi e in base alle poche informazioni ricevute cerco di stabilire un verosimile “ordine di arrivo” dei presenti: una cosa da paginone centrale della Settimana Enigmistica.
Chicco nel frattempo ha preso possesso del tavolino inscenando con gli altri bimbi un teatrino dell’assurdo.
Dopo una manciata di secondi, ricomincia la chiacchierata che avevo interrotto.
“Ecco, come ti dicevo, la maestra di ballo ha detto che la mia Ursula è davvero portata per la danza classica…”
“Ma davvero la porti al Centro Studi Danza del Maestro Salvador Pietrukioskji?”
“Certo! E’ la migliore scuola della Provincia… mi costa un occhio della testa, ma ne vale la pena…”
“Scusi…” interviene un’altra mamma – quella che “è-arrivata-per-prima” “…ma non è un po’ prestino per la danza?”
Eh, brava: m’hai letto nel pensiero. La creatura, si e no 18 mesi, ha due gambette ciompissime e burrose, piene di piegozze. Sorrido al pensiero di vederla avvolta dal tutù.
“Certo che no!” risponde l’altra mamma “Questa è l’età giusta per iniziare con l’avviamento alla danza… io invece porto i miei bimbi al corso di “baby-chef”. Me l’ha consigliato una mia amica, dopo che ha sentito che lo ha fatto il figlio di una sua collega, che ha letto la pubblicità su un giornale…”
“Baby-chef? E cos’è?”
“E’ un corso per cuochi in erba dove sperimentano tutte le creazioni di pasticceria, ma in modalità baby… io ci porto i gemelli. Così, intanto che stanno lì, vado a fare la spesa. Questa settimana in programma ci sono le gelatine di mela cotogna ispirate alla favola di Biancaneve…”
…mela cotogna…?
“Ruggero invece, quest’anno si è appassionato di arrampicata… ma adesso, siccome la sua compagna di banco sta recitando in un musical, lo vuole fare anche lui…”
“Un musical! Fantastico! E cosa metteranno in scena?”
Uh, anch’io ho recitato in un musical alle elementari:
era “Pierino e il Lupo”…
“SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE! In lingua originale, ovviament…”
Si apre la porta.
Un camice bianco, imperioso, ordina “AVANTI!” e la conversazione (per mia fortuna) si arena.
Cambio scena. Domenica mattina, maneggio.
Chicco annaspa per salire in groppa a Giselle, una piccola appaloosa, mentre la maestra gli spinge su il sedere.
A entrambi viene da ridere.
Anche alla maestra.
Alla fine, poco elegantemente, riesce a montarla: è felice ed impacciato, tiene le redini in alto come un vassoio di pasticcini.
“Mamma, guardami!” esclama emozionato.
“Sei bravissimo, Chicco!” mimo a gesti fuori dal recinto del campo grande, mentre il cuore mi va a tremila.
La sua felicità che diventa la mia felicità. Un’esplosione di fuochi artificiali materni.
Devo avere una colossale faccia da ebete.
Mi si avvicina una delle maestre. Frustino in mano, sorride della mia beatitudine.
“Che carino che è il suo bambino… da quanto monta?”
“Ehm… Veramente… da pochissimo… E’ la terza volta”.
“Davvero molto aggraziato.”
“Oh… che gentile…”
Silenzio.
“Mia figlia è salita in sella a due anni e mezzo”.
Gulp!
Deglutisco: “Ehm… uao… ma che brava…”
Incurante, lei continua: “Bisogna farli iniziare prestissimo, se si vogliono ottenere dei risultati… lo sa?”
“Eh… già…”
Mò me lo segno….
“Perché se iniziano troppo tardi a montare, non saranno mai dei bravi cavalieri… E’ importante cominciare presto, in tutte le cose… i bambini da piccoli sono spugne, puoi fargli imparare tutto quello che vuoi…”
Lingua incollata al palato. Salivazione azzerata.
Sono diventata un’anatra muta.
Finisce la lezione, i bambini corrono verso i genitori, e Lady Camilla Naprous sventola ancora una volta il frustino verso mio figlio: “Sul serio, il ragazzino è portato. Con un po’ d’impegno, l’anno prossimo potrebbe fare qualche gara”.
Chicco è arrivato, saluta la maestra.
“Mamma, mamma! Che bello cavalcare! Hai visto come sono stato bravo?…”
A questo dunque serve andare a cavallo?
A fare gare?
E io che pensavo servisse a relazionarsi con un animale emotivamente complesso, a capirne gli stati d’animo e a rispettarlo, a stimolare l’equilibrio e la percezione di sé.
Due mesi dopo, uscendo dal maneggio.
In auto, Chicco guarda fuori dal finestrino, in silenzio.
Ha gli stivali sporchi di terra, le guance arrossate dal freddo.
Lo vedo dallo specchietto retrovisore, con i suoi pantaloni da equitazione, col suo gilet color terracotta, col suo cap nero di velluto appoggiato sulle ginocchia.
Bellissimo e sfinito.
“Tutto bene?”
“Mh-mh”.
“Cosa vuol dire, mh-mh?”
“Sono stanco… oggi la maestra mi ha fatto lavorare tanto con Giselle”.
Lavorare…?
“Tutto qui?”
“Sono molto triste, mamma. Gli altri bimbi son più bravi di me…”
“Non dire così… vedrai che diventerai bravo anche tu… ci vuole molta pazienza…”
Silenzio.
“Mamma…?”
“Dimmi…”
“Io… io ho pensato che non voglio fare la gara. Io voglio solo giocare, con i cavalli.”
Ecco, appunto.
Buona idea.
Tranquillo, amore mio, tu non farai nessuna gara.
Non voglio nessuna medaglia, per te.
Perché tu, adesso, DEVI solo pensare a giocare.
Il tuo mondo deve essere il gioco. Non la competizione.
Adesso, alla tua età, il tuo mondo deve essere un arcobaleno di colori da spalmarsi sulla pancia.
Invece io ho sempre meno tempo per te, e in quel poco tempo che passiamo insieme perdo la testa e l’orientamento fra mille proposte educative, creative, ricreative pre-, post- e infra-scolastiche. Sono finita nel vortice oscuro delle “cose da farti fare”, divorata dall’ansia e dall’urgenza di non metterti nel piatto tutte le possibilità che il mondo civilizzato offre ai bimbi occidentali per esprimere al meglio le lor potenzialità.
Chi mi dice che questo sia giusto, per te?
Perché ognuno di noi pensa che il proprio figlio sia un piccolo genio sovraumano che salverà il mondo?
Non sarebbe più giusto guardarvi con occhi nuovi, liberi da pretese esagerate?
Perché, invece di prendere un lenzuolo per costruirti una tenda in giardino, ti faccio appiattire il didietro su una sedia, davanti a un libro di pre-grafismo?
Sono davvero pronta a calpestare la tua voglia di saltare sul divano per sollazzare il mio orgoglio quando dirò che a 4 anni sai già scrivere il tuo nome?
Ma non è tutto… visto che adesso posso farti assimilare qualsiasi cosa, è meglio iscriverti a un corso di arti marziali, di oboe o di ciaspole? Vincerai la medaglia d’oro nel salto con l’asta, nel tiro al piattello o nel lancio del coriandolo?
Sport? Musica? Lingue? Teatro?
E poi: perché mai devo delegare ad altri quello che con un po’ di fantasia potrei fare io con te?
Perché?
Forse perché tutti gli altri lo fanno?
O piuttosto perché ho paura di sporcare la cucina e le mani con la farina, lo zucchero e le uova, quando invece sarebbe bellissimo cucinare una torta di mele cotogne insieme?
Di cosa hai bisogno, veramente?
Io lo so.
Lo sappiamo tutti.
Tu hai bisogno di me.
Ed è inutile girarci intorno: cosciente o meno, è il mio egoismo, la mia stanchezza, la mia voglia di metterti su un piedistallo e di darti tutto quello che io “alla tua età” non ho avuto che mi porta a sbagliare.
Vedo in te il “campioncino da crescere”, e così nei tuoi movimenti, nelle tue espressioni, trovo il particolare e perdo di vista l’essenziale.
Ammetto quindi di aver fatto parte di quella categoria di madri che vivono il proprio figlio come un prolungamento di sé, come uno specchio.
E ho sbagliato.
Fino a ieri.
Perchè ieri TU mi hai abbracciata, forte. E mentre mi stringevi, mi ha detto che ti mancavo.
Io son rimasta muta. Mi son sentita una merd@, per dirla in francese.
E poi, quando sei andato a dormire, ho pianto di inadeguatezza.
Non contento, stamattina prima di andare a lavoro hai rincarato la dose e me l’hai ripetuto, così mi son sentita una merd@ per tutto il giorno.
Ho passato la giornata a chiedermi dove sbaglio, cosa sbaglio, e cosa posso darti di più, perché se mi hai detto così evidentemente non ti do abbastanza.
Dannazione! Sono una cattiva madre. Cattiva, cattiva!
Maledetta me!
Poi qualcuno mi ha spiegato che quelle parole – “mamma, tu mi manchi” – sono importantissime.
E bellissime.
Perché vuol dire che il tempo che passiamo insieme ha un grande valore per te.
Vuol dire che ne vorresti ancora.
E non c’è scuola di danza, insegnante di oboe o cappello da chef che possa sostituire, supplire o surrogare la presenza di una mamma.
Della tua personalissima, imperfetta, insostituibile mamma.
Una mamma che dovrebbe prendersi – e prenderti – meno sul serio: capace di capire che ogni frutto ha la sua stagione, e che esagerare con gli ingredienti nell’impasto non necessariamente rende la torta più buona.
Si, ho deciso: voglio essere così.
Voglio essere una mamma che, dopo averti letto la favola di Biancaneve, scende in giardino a raccogliere le mele cotogne quando sono mature.
Una mamma con cui poi è bello sporcarsi le mani di farina… e la pancia di colori.
Io credo che bisogna sempre e solo ascoltare la propria vocina interiore… mai e poi mai omologarsi alle consuetudini…